La continuità tra Benedetto e Francesco nei primi 10 anni di Pontificato del Papa argentino
Dieci anni fa, il 13 marzo 2013, veniva eletto papa il cardinale Jorge Maria Bergoglio, primo papa latino-americano, primo argentino e primo gesuita, primo anche a chiamarsi Francesco. Succedeva a Benedetto XVI, il quale si era inaspettatamente dimesso l’11 febbraio 2013, dopo meno di otto anni di pontificato. Questi primi dieci anni di Francesco coincidono in massima parte con il tempo del papa emerito, figura inedita nella storia del papato. A due mesi e mezzo dalla sua morte, avvenuta il 31 dicembre 2022, il ricordo di Benedetto XVI continua ad essere molto vivo nel cuore di tanti fedeli.Per dieci anni dunque due papi insieme: uno in piena attività e l’altro emerito, “recluso” volontariamente in un monastero, con l’intento di sostenere pregando l’attività del suo successore e la missione dell’intera Chiesa.Sia ben chiaro, il papa è uno e si chiama Francesco. Tuttavia nella mente di tanta gente, dentro e fuori della Chiesa, si è andata creando la percezione di un insolito tandem papale per cui Francesco e Benedetto, diversi fra loro per sensibilità, formazione e attitudine pastorale, hanno continuato a essere presenti insieme nella cronaca dei nostri giorni. E’ pertanto comprensibile che il pontificato di Francesco sia stato accompagnato dalla presenza se pur nascosta e volutamente sommessa del suo predecessore. Una presenza, che al di là di quanto è stato da taluni detto e scritto, ha avuto sicuramente un ruolo provvidenziale nel misterioso disegno divino, che a noi oggi non è dato di cogliere appieno. Va poi aggiunto che la presenza di Benedetto non ha condizionato l’attività di Francesco, il quale ha portato avanti con coraggio e libertà un profondo rinnovamento delle strutture nella Chiesa e lo ha fatto fin dal primo momento procedendo con instancabile dinamismo giovanile malgrado l’età e i suoi acciacchi. Non si è preoccupato delle pur prevedibili reazioni e resistenze che nascono e crescono davanti ad ogni cambiamento. Fin dal primo momento ha preso a parlare della “Chiesa in uscita” verso le periferie esistenziali, della Chiesa come “ospedale da campo” che coltiva la «cultura dell’incontro», con l’insieme di pensieri, di atteggiamenti, di scelte che superano chiusure, egoismi, clericalismi, spingendo i credenti a «uscire» anche loro, per andare nelle periferie del mondo verso i più poveri, gli immigrati e ogni forma di emarginazione sociale. Questo è lo stile con cui vuole operare Jorge Bergoglio, e se dalla tomba si destasse qualche ecclesiastico vissuto nei passati decenni vedrebbe la Chiesa, la Curia Romana e il Vaticano, come un cantiere in pieno rinnovamento. Dire però che questo rinnovamento da lui voluto con tenacia sia accolto con favore da tutti sarebbe non dire tutta la realtà, perché si continua a registrare non poca fatica da parte di taluni cristiani, mentre al contrario cresce l’apprezzamento da parte di persone che pur si dichiarano non credenti. In alcuni momenti Francesco ha però sperimentato la solitudine, come ad esempio per la guerra in Ucraina. Continuano infatti ad essere inascoltati i suoi ripetuti ed accorati appelli: nemmeno le sue lacrime hanno suscitato commozione e mosso i responsabili a decidersi per la pace. C’è inoltre chi sui social prosegue a far rimarcare la differenza, quando addirittura parla di contrasto, tra Francesco e i suoi predecessori, in special modo con Benedetto.Ma è proprio così? C’è veramente una sostanziale e profonda differenza fra loro? Il percorso di rinnovamento di Francesco, da taluni percepito come cambiamento radicale, non potrebbe essere considerato in sintonia con quanto auspicava anche Benedetto XVI, sia pur partendo da visioni diverse e non opposte ma tra esse complementari?Se non ha bisogno di essere dimostrata la diversità di stile e d’approccio che caratterizza ciascuno di loro, esiste però un punto importante che li vede uniti: da due orizzonti speculari Francesco e Benedetto guardano al Concilio Vaticano II e lo considerano entrambi la stella polare che deve guidare la Chiesa in questo tempo. Per questo, sia l’uno che l’altro, all’inizio del loro ministero petrino, si sono espressamente richiamati al Concilio. Occorre allora avere la pazienza di unire insieme e non contrapporre la modalità d’approccio teologico di Benedetto e quella pastorale di Francesco, se si vuole percepire la ricchezza del messaggio cristiano da proporre e vivere oggi integralmente.Incontrando la Curia Romana in occasione del suo primo Natale nel 2005, Benedetto, citando il Concilio Vaticano II, si è posto la domanda: “Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, – ha aggiunto – tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, cioè dalla giusta chiave di lettura e di applicazione”. Ed ha spiegato che esiste un’interpretazione del Concilio che ha chiamato “ermeneutica della discontinuità e della rottura” favorita dalla simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è un’interpretazione del Concilio come ‘“ermeneutica della riforma”, cioè del rinnovamento nella continuità della Chiesa che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto: il Popolo di Dio in cammino. E concludeva ricordando che se si interpretano le decisioni conciliari come ”discontinue” rispetto al passato si rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Occorre invece capire che c’è una continuità nel rinnovamento, come ebbero a ben spiegare papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e papa Paolo VI nel discorso di chiusura, il 7 dicembre 1965. Ed è proprio quest’ultimo modo di leggere e applicare il Concilio Vaticano II che, secondo papa Ratzinger, potrà rendere servizio alla nuova evangelizzazione.Dal canto suo, Francesco, qualche giorno dopo la sua elezione, nel primo incontro con oltre seimila giornalisti di tutto il mondo raccolti nell’aula Paolo VI in Vaticano il 16 marzo 2013, ha voluto tracciare il programma del suo pontificato con queste parole paradigmatiche: “Come vorrei una chiesa povera e per i poveri!”. Si tratta di un diretto e preciso richiamo al Concilio Vaticano II, ed anzi più precisamente al cosiddetto “Patto delle Catacombe di santa Domitilla”, definito da alcuni “il testamento segreto del Concilio Vaticano II”. Con queste brevi parole Francesco manifestava il desiderio d’una presenza coraggiosa e profetica della Chiesa tra gli uomini del nostro secolo, che forse durante l’assise conciliare non si era ancora pronti a comprendere ed accogliere totalmente. Così, proprio a partire dal Concilio Vaticano II, anche Francesco ha voluto tracciare la rotta del cammino della Chiesa nell’annunciare il Vangelo nel mondo attuale, pubblicando la sua prima esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, “la gioia del Vangelo”. Questi dieci anni sono la cronaca d’una Chiesa che, pur avendo conosciuto abbandoni e scandali, divisioni ed eresie, non si è stancata di proclamare la verità del Vangelo e la sua missione universale. Nei viaggi per il Pianeta, Francesco ha ribadito la sua attenzione prioritaria per ogni periferia esistenziale; ha invitato all’accoglienza degli immigrati e dei poveri; dilatando gli spazi del dialogo ecumenico e con le altre religioni, ha mostrato lo stile di una Chiesa che ha un cuore che include e abbraccia senza escludere nessuno.Per meglio capire la cifra di questo papato, è forse quanto mai utile conoscere in cosa consista il Patto delle Catacombe di Domitilla a cui si è sopra accennato. Era il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quando alla luce fioca della sera quaranta due padri conciliari, diventati poi nel tempo cinquecento vescovi, hanno siglato un Patto di fedeltà al Vangelo che li impegnava a tradurre nella vita di tutti i giorni un programma in dodici punti che erano e continuano ad essere una sfida ai “fratelli nell’episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII. I firmatari si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il 20 ottobre 2019 ripresero questo Patto un gruppo di partecipanti al Sinodo per l’Amazzonia, che raccolti anch’essi nelle catacombe di santa Domitilla vollero aggiornare alle nuove emergenze per il mondo “casa comune” e presentandolo come “Patto per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana”.A partire da qui si comprende lo stile e il linguaggio di papa Francesco, amato da molti e criticato da altri, come sempre avviene: ma questo non è il problema! Invece è pericoloso assecondare la tentazione di dividersi come i tifosi in uno stadio tra chi applaude e chi fischia. Più proficuo e necessario è cercare di cogliere, leggere e interpretare i “segni” di questo tempo che Dio ci dona di vivere con libertà interiore e saggio discernimento. Per quasi un decennio la Provvidenza ha posto accanto a Francesco l’emerito Benedetto: la loro inedita compagnia può diventare un esempio che mostra la convivenza come occasione per il reciproco rispetto e il dialogo al di là delle diverse sensibilità e visioni della realtà. Non è forse un segno il fatto che sia da Benedetto che da Francesco ci venga l’invito a riscoprire le ricchezze inesplorate del Concilio Vaticano? Non è altrettanto vero che i testi conciliari sono più citati che studiati e che chi parla del cosiddetto spirito del Concilio forse conosce poco questi documenti?Lo scorso 11 ottobre 2022, papa Francesco ha celebrato la messa nella basilica vaticana, davanti alla salma riesumata di san Giovanni XXIII, il papa che sessanta anni fa, l’11 ottobre 1962, apriva in questo stesso luogo il Concilio Vaticano II. Rievocandone la memoria ha detto: “Riscopriamo il Concilio per ridare il primato a Dio”. Ha invitato quindi a tornare al Concilio a “ritrovare la passione per il Concilio e rinnovare la passione per il Concilio” per “ridare il primato all’essenziale”, per tornare a Gesù e a una Chiesa “libera e liberante”, ma soprattutto a una Chiesa “abitata dalla gioia”, perché – ha osservato – se la Chiesa “non gioisce smentisce se stessa”, e in fondo “una Chiesa innamorata di Gesù non ha tempo per scontri, veleni o polemiche”. Occorre allora pregare perché “Dio ci liberi dall’essere critici e insofferenti, aspri e arrabbiati. Non è solo questione di stile, ma di amore, perché chi ama fa tutto senza mormorare”.Nel 2025 si celebrerà il Giubileo che cade ogni venticinque anni. Perché non raccogliere l’invito di papa Francesco a tornare al Concilio Vaticano II e a riscoprirlo e viverlo nella sua integrità? Utili tornerebbero al riguardo le preziose indicazioni di metodo per leggere, interpretare ed attuare i testi conciliari, che suggeriva papa Benedetto. Il giovane teologo Joseph Ratzinger il Concilio l’ha vissuto da diretto testimone. Anzi come già allora stimato esperto teologo ha contribuito all’elaborazione di alcuni testi conciliari che nel corso degli anni successivi ha cercato di approfondire nella sua vasta e apprezzata produzione teologica, patrimonio oggi per tutta la Chiesa.E vorrei concludere prendendo a prestito le parole che Francesco verga nella prefazione a un libro che raccoglie pensieri spirituali del suo predecessore, pubblicato qualche giorno dopo la sua morte. Egli così tra l’altro scrive: ”Benedetto faceva teologia in ginocchio. Il suo argomentare la fede era compiuto con la devozione dell’uomo che ha abbandonato tutto sé stesso a Dio e che, sotto la guida dello Spirito Santo, cercava una sempre maggior compenetrazione del mistero di quel Gesù che lo aveva affascinato fin da giovane”. Un invito a prendere sul serio la nostra missione cristiana, perché solo riscoprendo la forza di stare in ginocchio, possiamo aiutare la Chiesa a percorrere tutti i sentieri del mondo.( se vuoi a parte va pubblicato il testo del Patto delle Catacombe di Domitilla)“Noi, vescovi riuniti nel concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri fratelli nell’episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci con il pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto il resto che da qui discende. Cf. Mt 5,3; 6,33 ss.; 8,20.2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9 ss.; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, eccetera; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33 ss.3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi a una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At 6,1-7.4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (eminenza, eccellenza, monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di “padre”. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15.5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, eccetera, al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18 ss.; Mc 6,4; Mt 11,4 ss.; At 18,3 ss.; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33 ss.9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44 ss.; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9; 1Tim 5,16.10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:a) a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;b) a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.11. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:a) ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;b) formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo Spirito che capi secondo il mondo;c) cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;d) saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34 ss.; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.