Quaranta per cento di miele in meno nella arnie laziali, si salvano solo le api romane
Anche quest’anno, come i precedenti tre anni, dagli alveari del Lazio si si estrarrà “il 40 per cento di miele in meno rispetto ad una annata normale”. Lo dice Francesco Maria Tolomei presidente l’associazione regionale apicoltori professionisti e semiprofessionisti del Lazio che rappresenta aziende che complessivamente si occupano di 20 mila arnie dislocate in varie parti della regione.
La colpa non è, della api diventate improvvisamente sfaticate, quanto della scarsa quantità di nettare causata dai cambiamenti climatici.
La produzione media annuale di un alveare in una stagione normale “si attesta – spiega Tolomei sui 25 chili di miele. Quest’anno pensiamo si attesterà sui 13 o forse 14 chili e si viene già da tre stagioni disastrose”. Dito puntato, quindi, sui cambiamenti climatici.
“Lo scorso anno era cominciato bene ma poi la siccità ha mandato in sofferenza le fioriture. Quest’anno il problema è stato inverso. Ci sono state temperature notturne inferiori ai 10 gradi e ciò non ha permesso ai fiori di produrre nettare fino a quando le temperature, in questi giorni, sono risalite. Ma siamo già a metà giugno e abbiamo perso quasi due mesi di produzione”.
“L’impatto negativo dei fattori di stress ambientali sulle popolazioni di impollinatori, tra cui le api da miele, oggi è sempre più chiaro, ed è questo che studiamo al CNR-IPSP (Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante)” – lo sostiene Gennaro Di Prisco, ricercatore impegnato nello studio delle interazioni tra piante e impollinatori in presenza di parassiti e patogeni ma soprattutto cambiamenti climatici – “Ci aspettavamo quest’anno un maggio diverso, siccitoso come quello dello scorso anno, invece è stato piovoso. Purtroppo, apicoltori e agricoltori, ogni anno si trovano di fronte ad un rebus: che tempo farà? Il repentino cambio delle condizioni meteo stagionali rende la programmazione delle produzioni apistiche sovente un’ardua scommessa. Tuttavia – dice anche Di Prisco -, grazie a uno studio internazionale stiamo cercando di capire in che modo aumentare la resilienza delle api da miele per aiutarle a superare gli ostacoli climatici, attraverso anche la comprensione del valore nutrizionale dell’ambiente per definire un supporto alle decisioni di intervento. Per fare questo, però, servono colonie di forti e sane, e tecniche apistiche appropriate”.
Secondo l’esperto bisogna anche abituarsi a effetti diversi del clima su zone anche non molto distanti dove da una parte piove e dall’altra c’è siccità o viceversa. Ed infatti nel Lazio ci sono isole felici per l’apicoltura, come la campagna romana, che raccontano una storia diversa da quella a tinte fosche del resto della Regione. L’apicoltura Fiorentini, ad esempio, si trova a Fiumicino ed è una piccola attività che conta circa 26 milioni di dipendenti di cui soltanto tre sono esseri umani; il restante, a cui spetta il lavoro grosso, sono api divise il 400 arnie disseminate nei prati tra la sponda destra del fiume Arone a Fiumicino, a Tarquinia e a Civitavecchia.
Probabilmente l’esposizione verso il mare ha creato le condizioni migliori per far sì che buona parte delle arnie siano già piene di miele. Gli studi e le teorie sul cambiamenti climatici, qui in campagna si basano sull’esperienza fatta osservando la natura.
“Per alcuni anni l’anticiclone africano ha causato un lungo periodo di siccità” dice Paolo Rinelli, apicoltore da 55 anni che, insieme al fratello Stefano e al nipote Alfredo, portano avanti l’azienda Fiorentini condividendo passioni e dolorose punture.
Oltre al freddo in primavera, anche il caldo eccessivo impedisce alle piante di “fare nettare a sufficienza per sostenere le api. In alcuni casi – dice l’apicoltore – siamo dovuti intervenire con la nutrizione per evitare che morissero; un po’ come quando si riconosce la cassa integrazione ai dipendenti”.
Quest’anno, però, l’annata sembra essere salva. “E’ una stagione eccezionale come non se ne vedevano da molti anni sul litorale” dice Paolo mostrando un telaino grondante di miele, indicando un prato fiorito e colorato. Forse però il segreto del successo potrebbe essere proprio la coltivazione di quel prato. Quest’anno, infatti, “ho affittato un grosso appezzamento di terra e seminato grano saraceno, girasole e altri tipi di colture al solo scopo di fornire fiori, e quindi nettare alle api. Ha così sopperito alla carenza di coltivazioni di alberi nettariferi o semine di fiori che invece dovrebbero essere fatti dagli agricoltori. “Se è vero che l’Unione europea ha a cuore la sorte delle api – dice -, dovrebbe incentivare produzioni agricole di questo tipo. Ed invece i Tigli vengono piantati in centro città dai sindaci per aspetti estetici e nessun albero viene piantato in campagna”. Il sistema della semina di piante nettarifere e pollinifere, secondo il ricercatore del Cnr “può essere una parte della soluzione. Piantare essenze vegetali apistiche è uno dei temi presi in considerazione della prossima Politica Agricola Comunitaria iniziata quest’anno che prevede degli eco-schemi studiati appositamente per supportare la vita degli impollinatori con incentivi per gli agricoltori”.
Comunque la scarsa produzione non è l’unico problema del comparto che sembra essere stritolato dalla concorrenza del miele straniero di qualità inferiore ma venduto a prezzi stracciati. “Quello cinese, ad esempio – dice il presidente Tolomei – costa all’ingrosso meno di due euro al chilo quando quello italiano di euro ne costa 6”. Poco importa se c’è il rischio di imbattersi in un prodotto realizzato senza controlli e che, secondo studi di associazioni, spesso miscelati con aggiunte di zuccheri esogeni, “cosa che in Italia non è consentita anche perché puntiamo sulla qualità e abbiamo una normativa molto stringente”. Il rispetto delle norme garantisce il livello di qualità elevato, ma eleva anche i costi di produzione. “Costi altissime – dice Tolomei – che copriamo con difficoltà e non abbiamo sovvenzioni strutturali così come le hanno tutti gli altri comparti agricoli e dell’allevamento animale”.
Siccità e freddo fuori stagione non sono gli unici pericoli per le api minacciate anche “dai pesticidi usati dagli agricoltori”. Paolo Rinelli e il fratello Stefano ad Aprile hanno dovuto spostare in tutta fretta 25 arnie da una zona in cui un coltivatore aveva diserbato con un prodotto troppo aggressivo. “Tre famiglie di altrettante arnie, non ce l’anno fatta”. Alla domanda secca se le api sopravviveranno atutto ciò, l’esperto del Cnr scherzosamente rispondere: “certamente sopravviveranno a noi. I problemi principali sono – dice Di Prisco – un tipo di agricoltura e l’inquinamento, oltre che i cambiamenti climatici, parassiti e patogeni. Su tutto si sta intervenendo per limitarli, quindi la strada giusta è stata intrapresa. Si vede luce in fondo al tunnel” e soprattutto, speriamo che oltre la luce ci sia anche del miele.