Aveva dato fuoco con la benzina sul volto alla ex moglie, condannato a sei anni di reclusione
VITERBO – È arrivata la sentenza di condanna per un uomo che aveva sfigurato la ex moglie con la benzina e dandole fuoco. L’uomo era finito a processo davanti al tribunale di Viterbo in seguito alla denuncia della donna, arrivata sette anni dopo: “Volevo proteggere i figli”. L’imputato: “Meglio se ti avessi ammazzata…”
È stato condannato a sei anni e mezzo un uomo accusato di aver tentato di uccidere la moglie cospargendola di benzina e dandole fuoco. La sentenza è stata pronunciata di Viterbo, presieduto dalla giudice Daniela Rispoli, dopo una lunga discussione delle parti e circa mezz’ora di camera di consiglio. Per la vittima, costituita parte civile, 20mila euro di provvisionale. La procura aveva chiesto per l’imputato una pena di otto anni di reclusione.
I fatti risalgono alla mattina del 21 ottobre 2013. La donna, rimasta gravemente ustionata e ricoverata per tre mesi nel centro grandi ustionati dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma, tornò a vivere con il marito, fingendo per i successivi cinque anni che si fosse trattato di un incidente. Solo dopo sette anni ha trovato il coraggio di denunciare l’uomo. La vittima ha confessato la verità durante la cena del 18esimo compleanno del figlio minore, rivelando che era stato il marito a cospargerla di benzina e darle fuoco in mezzo alla campagna. Alla confessione erano presenti anche la figlia maggiore e lo stesso marito, che avrebbe ammesso le sue responsabilità minimizzando inizialmente il gesto come “uno scatto di rabbia” per poi lasciare la casa gridando “meglio se ti avevo ammazzata quel giorno”.
Fondamentale nel processo è stata la testimonianza dei figli della coppia, un giovane oggi 20enne e una donna 30enne, che hanno descritto anni di violenze subite dalla madre e da loro stessi, sia sotto l’effetto dell’alcol che da sobrio. I due hanno dichiarato di aver sempre sospettato del padre, ma che la madre avevano insistito per anni sulla versione dell’incidente. La donna, assistita dall’avvocato di parte civile Giovanni Labate, ha spiegato di aver taciuto per proteggere i figli dallo stigma sociale e dalle “chiacchiere di paese”.